Export agroalimentare italiano, è record

L’agroalimentare italiano può festeggiare un nuovo primato: nel 2022 le esportazioni hanno raggiunto i 61 miliardi di euro, con una crescita del 14,8% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, il saldo della bilancia commerciale è in deficit per 1,6 miliardi di euro, a causa della dinamica inflattiva. A dare queste notizie, in gran parte positive, è Ismea, sottolineando che l’anno passato ha visto una performance positiva per tutti i prodotti di punta del made in Italy.

I maggiori mercati del made in Italy

L’Unione Europea rimane il principale mercato di destinazione, con una quota del 57% delle esportazioni e un valore che raggiunge i 35 miliardi di euro. Germania, Stati Uniti e Francia rimangono i partner di maggior rilievo, con una quota complessiva del 37% e tassi di crescita a doppia cifra sul 2021. Da segnalare anche il forte incremento delle esportazioni verso Ungheria, Polonia e Repubblica ceca e – fuori dai confini comunitari – Regno Unito, con una ripresa sia in volume sia in valore delle principali voci dell’export alimentare nazionale. In controtendenza le spedizioni verso il Giappone, dove pesa la riduzione delle forniture di tabacchi lavorati, e verso la Russia, a causa dell’irrigidimento delle relazioni commerciali per via del conflitto in Ucraina. 

I prodotti più esportati

Si evidenzia una performance positiva per tutti i principali comparti e categorie, con le uniche eccezioni, tra i primi 20 prodotti esportati, di mele e uva da tavola. I vini in bottiglia raggiungono 5,2 miliardi di euro di export (+6,6%), grazie all’aumento dei prezzi che compensa largamente la riduzione dei volumi (-2,3%); le esportazioni in valore delle paste alimentari aumentano del 38,4% rispetto al 2021 e quelle dei vini spumanti del 19,4%; crescono in misura consistente anche le esportazioni di caffè torrefatto e di prodotti da forno.

Le importazioni in Italia provengono in gran parte dall’Ue

Le importazioni dall’Ue rappresentano il 69% del totale, con Francia, Spagna, Germania e Paesi Bassi come principali fornitori. Il valore del business è stimato in 43 miliardi di euro nel 2022. Il Brasile è al quinto posto, con un aumento del 50% delle importazioni.

Cosa accadrà nell’immediato futuro? 

Ismea organizzerà un webinair a fine aprile per esplorare e approfondire le possibili sfide globali del made in Italy agroalimentare. Nel corso dell’incontro, denominato ‘Le sfide globali del made in Italy agroalimentare’, verrà presentato il nuovo rapporto sull’internazionalizzazione con un’analisi della struttura e delle dinamiche di medio periodo degli scambi commerciali di cibi e bevande nelle diverse componenti merceologiche e destinazioni geografiche.Verrà proposto anche uno studio sulla performance competitiva nell’ultimo quinquennio.

Mercato IoT in Italia, due connessioni attive per ogni abitante

Nel 2022, il mercato italiano dell’Internet of Things ha registrato una crescita del 13% rispetto all’anno precedente, raggiungendo un valore di 8,3 miliardi di euro. Nonostante le difficoltà legate alla carenza di semiconduttori e materie prime, nonché all’instabilità economica e politica causata dalla guerra in Ucraina, il mercato IoT italiano ha continuato la sua corsa.

Smart Car la fetta più grande

La fetta più grande del mercato è rappresentata dalle Smart Car, con un fatturato di 1,4 miliardi di euro, pari al 17% del totale. Al secondo posto si trovano le applicazioni IoT nel mondo utility (Smart Metering e Smart Asset Management) con 1,37 miliardi di euro, in crescita ma ormai prossime alla saturazione. Gli ambiti che stanno crescendo di più all’interno del mercato IoT sono Smart Agriculture (+32%), Smart Factory (+22%) e Smart Building (+19%). 

Oltre 124 milioni di oggetti connessi

Gli oggetti connessi attivi in Italia sono 124 milioni. Un numero impressionante che, tradotto nella realtà, significa poco più di 2,1 dispositivi per abitante. A fine 2022, si contano 39 milioni di connessioni IoT cellulari (+5% rispetto al 2021) e 85 milioni di connessioni abilitate da altre tecnologie di comunicazione (+15%). Una spinta significativa arriva dalle reti LPWA (Low Power Wide Area) che vedono una crescita del 20% in un anno, passando da 2 a 2,4 milioni di connessioni. Le applicazioni che utilizzano tecnologie di comunicazione non cellulari hanno dato la spinta maggiore al mercato, con un valore di 4,5 4,5 miliardi di euro, +15%. Crescita più lieve, pari al +11%, per le applicazioni che sfruttano la connettività cellulare, il cui valore di mercato arriva toccare quota 3,8 miliardi di euro. Sono alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio Internnet of Things della School of Management del Politecnico di Milano.

Le soluzioni IoT per le imprese

L’Osservatorio comprende un’indagine su 153 grandi imprese e 301 PMI italiane nell’ambito dell’Industrial IoT, rilevando che l’87% delle PMI è a conoscenza delle soluzioni I-IoT, registrando un aumento del +41% rispetto al 2021, mentre le grandi imprese toccano il 98%. Il 77% delle grandi aziende e il 58% delle PMI hanno deciso di avviare almeno un progetto  in questo senso. Tuttavia, la mancanza di competenze rimane il fattore principale che limita l’avvio dei progetti per entrambe le tipologie di imprese (44% grandi aziende e 38% PMI). In generale, si assiste a una riduzione del gap tra grandi imprese e PMI in termini di conoscenza (-39%) e diffusione dei progetti (-23%) di Industrial IoT rispetto a quanto rilevato nel 2021.

Leadership femminile, modello vincente o ancora utopia?

L’indagine “Donne e mondo del lavoro” realizzata da SWG e commissionata da Amazon ha rilevato che per gli italiani la leadership femminile rappresenta un modello vincente, ma tra le donne lavoratrici, quasi una su due ritiene che nella propria azienda non ci siano uguali opportunità di carriera o equità di stipendio a parità di ruolo. La figura della donna viene associata al ruolo di caregiver familiare fin dalla fase dei colloqui di lavoro e alle ‘ragazze’ viene chiesto molto più spesso rispetto agli uomini se hanno o intendono avere dei figli.

In azienda ancora pochi servizi per le donne

Nonostante il 27% degli intervistati abbia dichiarato che la propria azienda stia valutando l’implementazione di nuovi servizi per ridurre il gender gap o introdurre dei servizi a favore della genitorialità e del caring, sono ancora poche le azioni poste in essere in questo senso. Solo il 23% delle aziende ha creato delle strutture che si occupano dell’inclusione delle donne e il 22% ha introdotto servizi di cura come nidi aziendali, convenzioni e baby-sitting. Il 38% degli intervistati occupati ha dichiarato che non sono presenti e non saranno attivate in futuro iniziative di formazione e crescita professionale destinati alle signore. Questi dati sono molto differenti nella visione che uomini e donne forniscono in merito ai servizi introdotti dalle aziende: infatti, mentre i primi appaiono molto più positivi nei loro giudizi, forse anche a causa di un livello di consapevolezza significativamente più basso, tra le donne le criticità emergono con una forza decisamente superiore.

Il comando al femminile è ritenuto più efficace

Tuttavia, nonostante questa disparità, il 65% delle donne e il 47% degli uomini intervistati ritengono che la leadership femminile sia più efficace. In particolare, i partecipanti al sondaggio riconoscono alle donne  doti fondamentali per il business quali empatia e gentilezza (78%), comunicazione efficace (67%), capacità di incentivare e stimolare il cambiamento (67%), maggiore attitudine al problem solving (66%), capacità di portare fiducia e positività all’interno del team (65%). Ci sono anche evidenze che molti intervistati preferirebbero avere una responsabile donna, ma solo il 25% di questi ha effettivamente una capa”.  

I nomi di riferimento dell’imprenditoria

Ai partecipanti all’indagine è stato infine chiesto chi riconoscono come proprio potenziale leader tra le imprenditrici italiane, riporta Ansa. Tre sono i nomi maggiormente espressi. Il 20% delle donne sceglierebbe Mariangela Marseglia, amministratore delegato di Amazon Italia, mentre tra gli uomini il primo gradino del podio è condiviso tra la presidente di Fininvest Marina Berlusconi (19%) ed Emma Marcegaglia, presidente e amministratore delegato del Gruppo Marcegaglia Holding S.p.A (19%).

Mobilità urbana, addio all’auto se i mezzi pubblici funzionano

Abbandonare la macchina per spostarsi in città con i mezzi pubblici è una scelta percorribile? Sì, a patto che ci siano alcune condizioni essenziali. Il sondaggio Ipsos-Legambiente ‘Tipi mobili nelle città italiane’ ha infatti rivelato che un cittadino su quattro è disposto ad abbandonare l’auto privata a favore dei mezzi pubblici, ma solo se questi sono convenienti e puntuali. L’indagine ha analizzato le abitudini di mobilità su scala nazionale, con un focus sulle grandi città italiane di Roma, Napoli, Firenze, Milano e Torino. I risultati mostrano una grande varietà di comportamenti di mobilità tra gli italiani, che richiedono risposte diverse. Ad esempio, il 23% del campione nazionale è rappresentato dagli ‘aperti al pubblico’, ovvero coloro che preferiscono i mezzi pubblici e condivisi, ma solo se i servizi sono potenziati e i costi ridotti.

Anche a piedi o in bicicletta

Il sondaggio ha rivelato anche che il 19% degli italiani preferisce camminare o andare in bicicletta perché conviene, ed è disposto a rinunciare completamente all’auto di proprietà a favore di servizi di sharing più sicuri e potenziati. Questo gruppo è cresciuto dopo il lockdown, soprattutto nelle grandi città come Roma e Torino. Al contrario, tra coloro che si muovono spesso nelle periferie e nei piccoli centri, prevale il gruppo degli ‘Irriducibili individualisti – mai fermi ma incollati al volante’ (14% del campione).

Il trasporto pubblico italiano è al di sotto della media europea

Secondo Andrea Poggio, responsabile mobilità di Legambiente, i dati emersi dalla campagna e dal sondaggio dimostrano che i cittadini sono disposti a cambiare il loro modo di muoversi, ma il trasporto pubblico in Italia è al di sotto della media europea. Per rendere le città più sostenibili e inclusive, occorre adottare politiche che rendano i quartieri e le città più accessibili in bici e con mezzi elettrici condivisi, anche attraverso l’adozione di nudge policies (o spinte gentili) come incentivi economici, abbonamenti e miglioramenti dei servizi. “Queste misure devono andare di pari passo, poiché l’esperienza di tutte le città del mondo dimostra che senza l’una, l’altra non può funzionare” conclude Poggio.

Gli interventi a favore della mobilità green

Legambiente sostiene che per trasformare le città italiane in vere ‘clean cities’, occorre disegnare percorsi prioritari ciclo-pedonali, incrementare i mezzi pubblici, creare zone scolastiche, aumentare i servizi e le infrastrutture di mobilità elettrica e condivisa, progettare zone cittadine a ‘zero emissioni’, anche per la distribuzione delle merci.

Conoscere poco la rete mette a rischio le iniziative di trasformazione digitale

Se un leader aziendale su quattro (25%) ammette di avere solo una conoscenza funzionale o limitata della rete aziendale, l’81% degli stessi dirigenti afferma che la propria organizzazione avrebbe bisogno di alti livelli di innovazione per avere successo nel corso del 2023. Di fatto, la pressione per la digitalizzazione non è mai stata così alta, ma il 73% dei dirigenti è preoccupato della capacità della propria organizzazione di tenere il passo con i requisiti tecnologici e digitali più recenti. Sono alcune evidenze emerse dal sondaggio pubblicato da Aruba, società di Hewlett Packard Enterprise, condotto su 200 leader aziendali internazionali per valutarne il grado di consapevolezza ‘digitale’.

La rete come strumento di produttività e innovazione

I manager d’azienda concordano sul fatto che la tecnologia e la digitalizzazione avanzata ora siano essenziali per consentire ai dipendenti di svolgere il proprio lavoro (71%). Tuttavia, nonostante il suo ruolo di collegamento tra i dipendenti e la tecnologia di cui hanno bisogno, solo il 61% afferma di comprendere appieno la relazione tra rete e produttività dei dipendenti. Allo stesso modo, il 53% ha dichiarato di non capire appieno come la rete possa aiutare a guidare l’innovazione, nonostante il 50% ritenga che l’accesso ai dati sia fondamentale per sbloccare nuovi flussi di entrate nei prossimi 12 mesi.

Emergono le contraddizioni

Le potenziali conseguenze di queste contraddizioni emergono considerando le strategie di investimento delle organizzazioni per l’anno in corso. Mentre il 50% dei leader aziendali afferma di voler aumentare nel 2023 la spesa per le iniziative digitali, solo il 25% afferma che effettuerà un investimento corrispondente nella propria infrastruttura di rete. A fronte di una quota significativa di intervistati (59%) che afferma che i propri dipendenti hanno sperimentato problemi di connettività sul posto di lavoro, solo il 29% ritiene che la propria organizzazione sia in grado di garantire un connettività continua, e solo il 21% è d’accordo sul fatto che la propria organizzazione abbia la flessibilità necessaria.

Serve una rete innovativa, agile e ottimizzata

“Le organizzazioni di tutto il mondo hanno grandi progetti per le loro trasformazioni digitali quest’anno – afferma Larry Lunetta, Vice President Portfolio Solutions Marketing di Aruba -. Vogliono aumentare la produttività dei dipendenti attraverso il lavoro ibrido, fornire una migliore analisi dei dati per sviluppare nuovi flussi di entrate, generare maggiore efficienza operativa per risparmiare sui costi, ridurre il consumo di energia per diventare più sostenibili e molto altro ancora. Le aziende sanno che devono continuare a investire nella tecnologia per rendere tutto ciò possibile. Ma per raggiungere gli obiettivi di business hanno bisogno del supporto di una rete innovativa, agile e ottimizzata. Solo così le probabilità di una trasformazione digitale di successo aumenteranno”.

E-anxiety: lo stress da email che nuoce alla salute mentale

Lo stress da email esiste e ha un nome: e-anxiety. “Se il lavoro è l’ultima cosa a cui qualcuno pensa prima di andare a dormire, probabilmente c’è qualcosa che non va”, commenta William Becker, professore alla Virginia Tech University e coautore dello studio che ha esaminato l’effetto delle e-mail ‘di lavoro’ sul benessere delle persone. Lo studio rivela che lo stress generato dalle e-mail “colpisce psicologicamente i dipendenti e le persone a loro vicine”, riporta il Paìs. I ricercatori hanno intervistato più di 400 dipendenti in diversi settori lavorativi, confermando che un controllo eccessivo della posta elettronica durante le ore non lavorative è dannoso per il benessere e le relazioni, e costituisce una sorta di allarme rosso per la salute psicologica.

Anche solo pensarci è in sé dannoso

“Ma anche solo pensarci è in sé dannoso – spiega Becker -: vedere il proprio capo controllare sempre la posta elettronica, sapendo che poi la invierà nel fine settimana o di notte, crea aspettativa. Quindi, non importa quale sia la politica aziendale o la legge – aggiunge il ricercatore -, se senti la pressione del tuo capo, questa avrà la precedenza su tutto il resto”,
L’effetto negativo di tutto ciò si trasmette inevitabilmente al partner o ai figli, in quanto l’interessato “non riesce a liberarsi completamente dal lavoro”, sottolinea Becker. E ciò accade più frequentemente durante il tempo libero o mentre si stanno svolgendo impegni personali o familiari.
Insomma, si tratta di “interruzioni o distrazioni che aumentano nel dipendente conflitto e sensazione d’ansia”, e che si riverberano sull’ambiente circostante.

Imparare a distinguere tra “urgente” e “importante”   

C’è un rimedio? Gli esperti concordano sul fatto che la velocità delle risposte sul lavoro fa parte della ‘cultura dell’immediatezza’ dei nostri tempi, e secondo gli autori dello studio il rimedio consiste in questo: “La percezione dell’urgenza non è necessariamente reale e può esser regolata”. Quindi, è necessario imparare a distinguere tra ‘urgente’ e ‘importante’ e stabilire atteggiamenti che modulino il comportamento, “come scegliere razionalmente il momento della risposta, dosare l’accesso alle applicazioni e analizzare domanda e aspettative”, suggeriscono i ricercatori.

Aumenta l’invalidità temporanea dovuta a disturbi mentali e comportamentali

Un rapporto elaborato dalla società Fremap, che ha analizzato 380.000 assenze per malattia su un campione di 3 milioni di persone, mostra che tra il 2015 e il 2021 l’incidenza media dei processi di invalidità temporanea dovuta a disturbi mentali e comportamentali (Tmc) è aumentata del 17% per tutte le fasce di età. Nel 2021, se si ignora l’impatto del Covid-19, le malattie mentali sono poi state la causa della richiesta del 15% dei giorni di riposo, la seconda causa più rappresentativa dopo i disturbi muscolo-scheletrici. Tutto ciò, riporta AGI, oltre agli effetti sulle persone, pesa anche sui conti delle aziende. I processi di invalidità temporanea, sempre secondo lo studio, hanno infatti causato in Spagna “un costo medio salariale e contributivo di 2.053,36 euro a congedo nel 2021”.

Le coppie italiane sono soddisfatte della propria vita sentimentale

San Valentino è la festa degli innamorati, e il 14 febbraio di ogni anno si festeggia in gran parte del mondo. Per l’occasione Ipsos ha condotto un’indagine, il Global Love Life Satisfaction, in 32 Paesi, Italia compresa, per verificare quanto i cittadini si sentano amati, soddisfatti della propria vita sentimentale o del rapporto con il/la propria/o partner. Di fatto, a quanto emerge dal Global Love Life Satisfaction, a livello internazionale in media, più di quattro intervistati sposati o conviventi su cinque, pari all’84%, si dicono soddisfatti della propria relazione, mentre solo due su tre (63%) della propria vita sentimentale o sessuale. Ma quanto si sentono amati e soddisfatti della propria vita sentimentale gli italiani?

Sentirsi amati è più comune tra i Boomers

La maggioranza degli italiani dichiara di sentirsi amata (73%), quota leggermente inferiore alla media internazionale (76%). A livello internazionale, in particolare, sentirsi amati è più comune tra i Boomers (80%) rispetto ai GenX (75%), i Millennials (76%) e i GenZ (76%). In Italia il 60% degli intervistati si dichiara soddisfatto della propria vita sentimentale o sessuale, un dato in linea con la media internazionale (63%). Ma a livello internazionale i Millennials (68%) affermano di essere più soddisfatti della propria vita sentimentale o sessuale, rispetto alla GenX (62%), alla GenZ (59%) e ai Boomers (61%).

Le coppie giapponesi sono le meno felici

Chi è sposato o ha una relazione stabile (83%) ha maggiori probabilità di sentirsi amato/a rispetto a chi è single (70%). Gli adulti sposati o conviventi (75%) hanno infatti maggiori probabilità di essere maggiormente soddisfatti rispetto ai single (54%). La maggioranza delle coppie italiane (76%) si dichiara soddisfatta della relazione con il/la proprio/a coniuge o il/la partner, percentuale però inferiore rispetto alla media internazionale (84%). Le coppie in Indonesia (94%), nei Paesi Bassi (94%), in Thailandia (90%) e in Malesia (90%) sono maggiormente soddisfatte della propria relazione, mentre in Giappone (70%) e in Corea del Sud (73%) sono le meno soddisfatte.

Donne e uomini: se c’è amore non c’è gender gap 

Inoltre, a livello internazionale, le persone appartenenti a famiglie ad alto reddito (87%) e con un’istruzione superiore (86%) hanno una probabilità leggermente più alta di essere soddisfatte della propria relazione. Sempre a livello internazionale, l’indagine Ipsos non riporta differenze di genere significative tra i paesi considerati. In particolare, il 76% delle donne e il 75% degli uomini dichiarano di sentirsi amati, l’83% delle donne e l’85% degli uomini affermano di essere soddisfatti della relazione con il/la proprio/a coniuge o il/la partner, e il 63% delle donne e degli uomini esprime soddisfazione per la propria vita sentimentale.

Cybersecurity: perchè gli errori di comunicazione possono causare incidenti in azienda?

Poco più di due terzi dei top manager italiani, il 76%, ammette che un errore di comunicazione con il reparto o il team di sicurezza IT ha causato almeno un incidente di cybersecurity nell’azienda.
Per determinare quanto la comprensione reciproca tra dirigenti e team di sicurezza IT influisca sulla resilienza informatica delle aziende, Kaspersky ha condotto un’indagine globale su oltre 1.300 leader aziendali. La maggior parte dei dirigenti non IT ha citato una diminuzione del senso di cooperazione tra i diversi team (25%), e ha dichiarato che la situazione li porta a mettere in dubbio le competenze e le capacità dei colleghi quando la comunicazione con i dipendenti sulla sicurezza informatica non è chiara (37%).

Effetti negativi sulle relazioni tra i team

Sulla base dei risultati dello studio, il 99% degli intervistati non IT ha riscontrato errori di comunicazione in materia di sicurezza informatica. Per quanto riguarda le conseguenze, il più delle volte l’interruzione delle comunicazioni porta a gravi ritardi nei progetti (64%) e a incidenti di cybersecurity (62%). Quasi un terzo degli intervistati (rispettivamente 28% e 29%) ha dichiarato di aver riscontrato questi problemi più di una volta. Inoltre, tra gli altri effetti negativi sono stati evidenziati anche lo spreco di budget (60%), la perdita di un dipendente di valore (62%) e il deterioramento delle relazioni tra i team.

Quando i dirigenti mettono in dubbio le competenze dei dipendenti

Oltre a peggiorare gli indicatori di business, una comunicazione poco chiara nei confronti dei dipendenti della sicurezza informatica influisce anche sullo stato emotivo del team, e fa sì che i dirigenti mettano in dubbio le competenze e le capacità dei dipendenti. Inoltre, il 26% dei dirigenti ammette che le incomprensioni fanno perdere la fiducia nella sicurezza dell’azienda e il 31% ritiene che questa situazione li renda nervosi, incidendo sulle loro prestazioni lavorative.

“La protezione delle informazioni è parte integrante del business”

“Una comunicazione chiara tra i dirigenti di un’azienda e la gestione della sicurezza informatica è un prerequisito per la sicurezza aziendale – ha commentato Alexey Vovk, Head of Information Security di Kaspersky -. La sfida consiste nell’immedesimarsi negli altri, per anticipare e prevenire gravi malintesi. Ciò significa che da un lato il CISO dovrebbe conoscere il linguaggio aziendale di base per spiegare meglio i rischi esistenti e la necessità di misure di sicurezza. Dall’altro, le aziende dovrebbero capire che la protezione delle informazioni nel XXI secolo è parte integrante del business, e quindi destinare budget per quest’area è un investimento per proteggere il patrimonio aziendale”.

Tre dipendenti su 4 sono pronti a cambiare carriera

I dipendenti italiani cercano più significato nella propria vita lavorativa? Sembra di sì. Secondo la ricerca Transformations, skills and learning realizzata dal Gruppo Cegos in 7 Paesi, 3 dipendenti italiani su 4 (78%) sarebbero disposti a prendere in considerazione un cambio totale di carriera. Direttori e hr manager sono consapevoli del fenomeno, e si stanno attivando per programmi di retraining, ma solo il 24% li ha già implementati. Del resto, lo sviluppo delle competenze è sempre più vitale per adattarsi alle trasformazioni in atto. In particolare per la trasformazione digitale (61%), quella legata alle nuove modalità di lavoro (52%) e sulla sicurezza informatica (39%).

Non solo upskilling, ma anche reskilling

Sono queste le grandi sfide che per gli hr manager avranno il maggior impatto, tanto che il 37% dei programmi di formazione implementati sono di upskilling (36%). Oltre all’upskilling si stanno però affermando anche approcci di reskilling per la mobilità interna, da interpretare come possibile rimedio alle crescenti difficoltà nel reclutare e trattenere i talenti. Inoltre, 9 dipendenti su 10 sono disposti ad autoformarsi, e il 64% avverte lo sviluppo delle competenze una responsabilità condivisa tra azienda e lavoratore (59% hr). Ma solo il 40% dei lavoratori ritiene che l’organizzazione soddisfi le proprie esigenze di formazione ‘just in time’, e per il 42% la risposta arriva troppo tardi rispetto a quando si è manifestato il bisogno formativo.

Le sfide della formazione just in time

Il 55% di responsabili hr ritiene che sia difficile far corrispondere i bisogni di competenze dell’organizzazione con l’offerta di formazione. Per costruire i programmi di formazione gli hr director si basano su quattro driver: ruoli e competenze della propria organizzazione, variazione della business strategy, esigenze individuali e delle linee di business. Inoltre, per il 41% degli hr director sono da migliorare soprattutto le competenze digitali e manageriali (39%), oltre le soft skill. Organizzazione efficiente del lavoro, creatività e senso dell’innovazione sono in cima alle priorità dei dipendenti, mentre agilità e adattamento sono al top per i professionisti hr. L’apprendimento blended e online sono ancora favoriti dai referenti hr. Il 60% ha attivato negli ultimi due anni corsi di formazione online, il 49% corsi blended e il 41% corsi in aula.

Le aziende devono incoraggiare un maggiore coinvolgimento dei dipendenti

“Di fronte ai cambiamenti in atto e al crescente interesse dei dipendenti nello sviluppo delle proprie competenze, le organizzazioni devono essere in grado di offrire una gamma di opportunità di formazione, mobilità e riqualificazione dinamiche e chiare, e devono renderle anche più visibili internamente per incoraggiare un maggiore coinvolgimento dei dipendenti – commenta Emanuele Castellani, ceo di Cegos Italy & Cegos Apac -. Un’attenzione particolare va riservata ai ‘serial learner’ capaci di influenzare positivamente i colleghi, e che potrebbero rappresentare una grave perdita di competitività se non ascoltati, soprattutto alla luce dell’impennata di dimissioni dell’ultimo anno, spesso legate alla ricerca di condizioni più vicine alle proprie aspettative e valori”.

Pizza: piace a 8 italiani su 10, anche surgelata

Ideale da preparare al forno per una cena in casa in famiglia o con gli amici, la pizza surgelata è consumata da 8 italiani su 10 (85,7%), e se il 55,6% dichiara di consumarla spesso, il 27% delle famiglie con bambini la sceglie in media una volta a settimana. Un apprezzamento confermato anche dai dati di consumo: nel 2021 sono state consumate oltre 60.000 tonnellate di pizze e pizzette surgelate. Perché la pizza è un piatto che mette tutti d’accordo, anche nella sua versione sottozero.
È quanto emerge da una ricerca commissionata da Findus ad AstraRicerche, presentata in occasione della Giornata Mondiale della Pizza.

Sul podio Margherita, Diavola, Quattro Formaggi 

Non ci sono dubbi, a stravincere è la Margherita, preferita dal 59,2% degli italiani. Secondo posto per la Diavola (23,5%), scelta maggiormente dagli uomini (29%) rispetto alle donne (18%), e in una fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni, soprattutto nella zona del Triveneto (30%) rispetto al Sud Italia e nelle Isole (18%). Al terzo gradino del podio la Quattro Formaggi (22,8%), preferita dalle donne (25%, over 50) e più diffusa nel Nord Italia. Quanto agli altri gusti più amati, Capricciosa e Quattro Stagioni riscuotono maggiori consensi tra gli over 50, dove l’apprezzamento supera il 20%.

Il perfect match: con patatine fritte, crocchette o supplì?

Il settimo posto, invece, è occupato dalla Focaccia (15%), ideale da servire in tavola per accompagnare un piatto di salumi. Se si guarda invece al ‘perfect match’ per la pizza surgelata, il 38,7% degli italiani abbinerebbe patatine fritte, il 25,4% degli intervistati opterebbe per le crocchette di patate, mentre il 23,9% sceglierebbe il supplì, sfizio che piace molto al 65% degli italiani nel basso Centro Italia, ma che riesce a conquistare anche i gusti di 4 italiani su 10 nel resto d’Italia.

La pandemia spinge i consumi di snack sotto zero

Pizza e snack surgelati come crocchette, supplì, panzerottini, mozzarelline panate, si rivelano ingredienti perfetti per serate a casa in compagnia, tanto che per il 27,5% degli italiani organizzarle è un appuntamento fisso e settimanale. Il 57,7% degli italiani si organizza di tanto in tanto, mentre solo il 14.9% del campione dichiara di non organizzarne mai, anche se la metà sarebbe curioso di provare (7,4%). Ma quali sono le principali ragioni di consumo di snack surgelati a casa? A spingere i consumi è stata la pandemia, che ha inciso per il 24,4%, ma anche la convenienza e il risparmio (21%), o perché si preferiscono cene e aperitivi in casa (20,7%), ma anche perché si opta per la comodità (17,8%).